Milano, Nebraska

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Le cose stanno così: vedi una ragazza carina che legge Internazionale e vorresti dirle che è bello vedere persone che leggono Internazionale, vedi una ragazza carina che rompe gli indugi su quale opuscolo scegliere in un chiosco improvvisato da una setta religiosa, prendendo quello intitolato “Sopravvivere al dolore”, e non ti viene nemmeno da commentare. Sembra pure intelligente ed è vestita con un tailleur manageriale così le creduloneria scaramantica con l’occidente industrializzato cozzano oltremodo. Il pregiudizio si completa con l’associazione automatica tra i settimanali di informazione di sinistra e l’intelligenza, l’impegno e la serietà, anche se poco dopo vedi la rivista riposta in borsa che ha lasciato spazio a una mano a 2048.

Ognuno dedica attenzione a quello che crede, noi osservatori dovremmo invece smetterla con l’affibbiare etichette a cose e persone, c’è da dire però che il tempo per attraversare da una parte all’altra quell’enorme spazio in cui convogliano tutti gli ingressi alla stazione della metro di Porta Venezia non è poco, e qualche riflessione antropologica ci sta tutta. Gli uomini vestiti business con i sandali, per esempio, quelli di mezza età con le bermuda in jeans ricavate da un pantalone passato di moda con il taglio sfilacciato o, peggio, con il risvoltino sopra il ginocchio, le fantasie hawaiane sui quadretti multicolore, madri con i nomi dei figli tatuati sulle braccia, i soliti corpi di ballo improvvisati che si esercitano nelle coreografie di gruppo seguendo le istruzioni di quello che sembra il più coordinato di tutti e io che non capisco mai se sono ragazzi sudamericani o asiatici, il che è problematico.

Poi mi ferma un vecchio che sembra uscito da Nebraska – il film – con lo stesso stato confusionale che mi ricorda quello di mio papà prima che il male gli facesse dimenticare tutto, e mi chiede come si esce da lì sotto con la stessa espressione delle persone anziane quando fuori ci sono quaranta gradi anche se oggi ce ne sono a malapena venti. Gli faccio notare infatti che fuori piove a metà, c’è proprio il confine lì sopra, in linea con le geometrie del quadrilatero della moda che ha un lato in Corso Buenos Aires. Prima che scendessi lì di qua c’era il sole e qualche nuvola, di là, proprio da dove l’uomo vuole tornare in superficie, c’è l’apocalisse. Io ho un ombrello Ikea di quelli che non gli daresti due lire ma alla fine sono gli unici che non si rompono mai, e penso che potrei anche lasciarglielo tanto sto per infilarmi su un treno per tornare a casa, ma non è mio, l’ho preso in ufficio e ho promesso di restituirlo il giorno dopo. L’uomo mi dice che pioveva anche prima (ma prima quando?) e si allontana lasciandomi un po’ in ambasce.

Mi arrendo così all’idea che non è che tutti siamo sprovveduti, è che tutti ci inventiamo preoccupazioni che non servono. Pensate solo alle ragazzine che girano tenendo in mano smartcosi da centinaia di euro, magari passa uno di corsa e se li porta via. Ma nessuno sembra farci caso, né a loro, né ai ballerini che si muovono su una musica che non c’entra nulla con l’hip hop, né al chiosco dei testimoni di chissà chi e nemmeno a me. Il vecchio di prima, nel frattempo, chiede la stessa informazione che gli ho appena dato io a qualcuno di più rassicurante. Forse quello spazio è troppo grande anche per me.

4 pensieri su “Milano, Nebraska

  1. Se per caso in questi giorni hai visto uno che leggeva Fabio Volo in metropolitana, spero tu non lo abbia giudicato troppo severamente. Ero io che mi concedevo una lettura trash. 🙂

  2. Che poi ho sbattuto il naso tante di quelle volte nel pregiudizio positivo dato da una lettura di sinistra o “intelligente”, per scoprire che non basta… ma ancora ci casco

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